Criteri ermeneutici e contratto di assicurazione secondo la Cassazione

Criteri ermeneutici e contratto di assicurazione secondo la Cassazione
27 Luglio 2017: Criteri ermeneutici e contratto di assicurazione secondo la Cassazione 27 Luglio 2017

IL CASO. Una società produttrice di calcestruzzo aveva chiesto stragiudizialmente ai suoi tre coassicuratori il pagamento dell’indennizzo per i “danni devastanti e la morte di una persona” cagionati dallo scoppio di un’autoclave, ma ne era stata invece convenuta in giudizio avanti al Tribunale di Roma, affinché venisse accertato che i danni in questione non erano indennizzabili, perché “provocati da un evento non compreso tra quelli previsti dalla polizza”.

A fondamento della domanda di accertamento negativo dell’obbligo indennitario le coassicuratrici avevano dedotto che “il contratto di assicurazione copriva i danni derivati da scoppio causato da ‘eccesso di pressione’, mentre nel caso concreto lo scoppio fu causato non da eccesso di pressione, ma da un ‘cedimento strutturale’ del meccanismo di chiusura dell’autoclave scoppiata”.

Il Tribunale di Roma aveva riconosciuto l’indennizzabilità del sinistro a termini di polizza (e quindi condannato i tre coassicuratori al pagamento), osservando che “il contratto di coassicurazione copriva i danni causati da ‘scoppio’ di macchinari, quale che ne fosse la causa” (“pressione eccedente quella normale di esercizio” o “difetto di materiali”) e che, pertanto, “una diversa interpretazione del contratto di assicurazione non era possibile, perché: sarebbe stata incoerente con lo scopo delle parti, che era quello di proteggere l’impianto contro tutti i rischi di scoppio …; avrebbe privato di ogni efficacia il contratto, dal momento che se per ‘scoppio’ si fosse inteso solo quello causato da una pressione eccedente quella normale di esercizio, mai nessuno scoppio sarebbe stato indennizzabile”.

La sentenza di primo grado era stata, però, riformata dalla Corte d’Appello di Roma, che aveva invece negato l’indennizzabilità del sinistro in questione, osservando come “il lemma ‘scoppio’ usato nella descrizione del rischio assicurato dovesse intendersi secondo il senso comune come ‘rottura fragorosa dovuta ad un eccesso di pressione dall’interno’; e che il contratto andasse interpretato nel senso che per pressione ‘eccessiva’ del macchinario dovesse intendersi soltanto quella superiore alle capacità di resistenza del macchinario sottoposto a pressione”.

Il Giudice di secondo grado aveva, pertanto, concluso che nel caso di specie non v’era stato alcuno “scoppio” ai sensi di polizza, ma solo un “cedimento strutturale” dell’autoclave, in quanto tale “escluso dai danni indennizzabili”.

Avverso la decisione della Corte d’Appello tutte le parti avevano proposto ricorso per cassazione, lamentando, sia pur per motivi diversi, l’errata interpretazione del contratto di coassicurazione.

LA SENTENZA. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 668/2016, ha criticato la motivazione con la quale il Giudice di secondo grado aveva negato l’indennizzabilità del sinistro, ritenendola contraria ai canoni ermeneutici dettati dal codice civile, primo fra tutti quello di cui all’art. 1362 c.c., perché “ha adottato una interpretazione incoerente tanto con la lettera del contratto, quanto con la volontà delle parti”.

Il Giudice di legittimità ha ravvisato l’incoerenza della motivazione con il testo del contratto nella parte in cui questa aveva assolutizzato un concetto relativo quale quello espresso dal lemma “eccesso” (infatti, “una pressione di 9 bar … può essere ‘eccessiva’ per una autoclave difettosa, ma non per una autoclave efficiente”), sicché “la Corte d’appello, … dinanzi ad una clausola lessicalmente così ambigua, non poteva arrestarsi al senso fatto proprio dalla connessione delle parole, per la semplice ragione che tale senso non esisteva. Essa, invece, avrebbe dovuto applicare tutti gli altri criteri legali di ermeneutica, che invece sono rimasti inesplorati”.

Ne ha, poi, ravvisato l’incoerenza con la volontà delle parti, perché la società assicurata, “con la polizza oggetto del contendere, aveva inteso assicurare … uno stabilimento industriale” contro i danni derivanti da “scoppi in genere”, e non già solo dagli scoppi causati da “eccesso di pressione”.

La Cassazione ha altresì ritenuto che la Corte d’Appello avesse violato pure i criteri ermeneutici di cui al “combinato disposto degli artt. 1363 e 1367”, nonché, in particolare, quello previsto all’art. 1370 c.c..

Infatti, l’ambiguità della formula con la quale il contratto di assicurazione aveva definito il rischio assicurato (“scoppio causato da eccesso di pressione”), “ove non fosse stata superabile col ricorso ai criteri di cui agli artt. 1362 – 1369 c.c., avrebbe dovuto indurre il giudice di merito ad applicare il criterio dell’interpretatio contra proferentem, e dunque intenderla in senso sfavorevole a chi quella clausola predispose”.

Ciò perché “il contratto di assicurazione deve essere redatto in modo chiaro e comprensibile”, con la conseguenza che, “al cospetto di clausole polisenso, è inibito al giudice attribuire ad esse un significato pur teoricamente non incompatibile con la loro lettera, senza prima ricorrere all’ausilio di tutti gli altri criteri di ermeneutica previsti dall’art. 1362 c.c. e ss., ed in particolare quello dell’interpretazione contro il predisponente, di cui all’art. 1370 c.c.”.

Applicando il succitato principio al caso di specie, la Cassazione ha pertanto concluso per l’indennizzabilità del sinistro, perché “se … i compilatori della polizza offertaed unilateralmente predisposta, adottarono soluzioni lessicali incerte od ambigue” queste avrebbero dovuto essere loro imputate (“imputent sibi”), “restando fermissimamente escluso che possano ricadere sull’assicurato le conseguenze della modestia letteraria o dell’insipienza scrittoria dell’assicuratore”.

Per la verità la sentenza, pur ampiamente argomentata, suscita qualche perplessità, laddove, constatata l’ambivalenza semeiotica della clausola, anziché verificare se il suo significato fosse individuabile ricorrendo ai criteri strettamente interpretativi dettati dagli artt. 1362-1363 c.c. (così attenendosi alla consolidata giurisprudenza in tema di gerarchia fra i criteri stessi), ha immediatamente optato per il criterio integrativo (e dunque subordinato) dell’interpretatio contra proferentem.

Questa è, in realtà, in moltissimi casi una comoda scorciatoia per l’interprete che si discosta tuttavia dalla via maestra seguita dal consolidato insegnamento della Cassazione stessa.

 

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